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  1. LA TERAPIA FAMILIARE

In queste pagine, tratte dalla mia tesi di specializzazione, si introduce una panoramica dei modelli di terapia familiare, approfondendo i costrutti del modello umanistico fenomenologico esistenziale coniugati nel Modello Strutturale Integrato, in cui mi sono specializzata. Particolare attenzione viene posta ai limiti negli studi della terapia familiare sull’anoressia e vengono quindi spiegati gli elementi essenziali del modello di psicoterapia a cui faccio riferimento, applicati alla terapia familiare con anoressica. Si conclude esplicitando le tappe della terapia familiare con anoressica, che come si vedrà non corrisponde alla sintomatologia anoressica, così come concepita in ambito psichiatrico e nell’immaginario comune.

Voglio iniziare con una frase del professor Giovanni Ariano che ci introduce anche nelle prossime pagine “La vita è integrazione, ovvero incontrare la diversità per crescere. (…) l’arroccarsi nella propria identità, ignorando o condannando gli altri, come il perdersi nelle infinite relazioni, sono due facce della paura di vivere”.

 

 1.1 Modelli di terapia familiare

La psicoterapia familiare ha le sue origini nella prospettiva sistemica e nella scuola di Paolo Alto. Fonda le sue basi teoriche sulla teoria dei tipi logici di B: Russell, sulla teoria dei sistemi generali di L. von Bertalanffy e sulla teoria del doppio legame di G.Bateson. Nel corso della storia si è incarnata in tre correnti fondamentali: la psicodinamica, la cognitivo-comportamentale e l’umanistico-fenomenologica. All’interno di quest’ultima corrente, nell’orizzonte del modello umanistico fenomenologico esistenziale si muove anche il Modello Strutturale Integrato. In esso sono declinati sia il costrutto di sistema come totalità, sia di parti che, in conformità a una formula strutturale diventano totalità, sia la molteplicità dei livelli logici.

1.1.1. Costrutti del modello umanistico fenomenologico esistenziale coniugati nel Modello Strutturale Integrato

Per una più adeguata comprensione è opportuno descrivere i singoli costrutti che, pur rimanendo all’interno della corrente umanistico fenomenologico esistenziale, si sono sviluppati e sono diventati il riferimento basilare per le terapie familiari secondo il Modello Strutturale Integrato. Ciò permette di avere un primo vocabolario di base su cui poter poggiare le basi del lavoro che sto per presentare. Riprendo i concetti così come sono espressi nel libro “IL CORPO MUTO” scritto dal professor G. Ariano, anno 2010; pagg.245-248):

 Sistema: il sistema è una totalità che organizza in unità le parti che lo compongono. Questa definizione può essere applicata sia all’individuo come un insieme di funzioni necessarie perché si costituisca l’unità uomo sia alla coppia e alla famiglia, in cui le parti sono il marito e la moglie nella coppia; genitori e figli, marito e moglie, fratelli e sorelle nella famiglia.

Sottosistemi: nel sottosistema si possono prendere in considerazione le parti o ci si può fermar a livelli diversi. In una famiglia ci si può fermare al sottogruppo genitori/figli, oppure ai singoli individui che li compongono. Livello logico: nel MSI vengono presi in considerazione tre livelli logici: quello della famiglia come totalità; il sottosistema genitori e il sottosistema figli; quindi i singoli individui. Ogni livello ha una sua legge di funzionamento che lo differenzia dagli altri. Visione strutturale piramidale: ogni struttura è data dalla totalità di parti che la compongono ed è parte, a sua volta, di una totalità superiore. La famiglia è composta dai sottogruppi dei genitori e dei figli; a loro volta i sottogruppi sono costituiti dai singoli individui. In una visione strutturale piramidale, la totalità superiore influisce sulle parti che la compongono e le parti condizionano la totalità cui danno origine. In questo orizzonte c’è sempre un condizionamento sia dall’alto sia dal basso.

Forza di un modello: La forza del condizionamento dall’alto verso il basso e viceversa è direttamente proporzionale al numero dei livelli logici che un modello al suo interno è in grado di differenziare. La forza di un intervento psicoterapico: la forza dell’intervento su una famiglia dipende dalla capacità di scegliere a quale livello logico intervenire e dalla capacità di percepire gli effetti che l’intervento produce nel livello immediatamente superiore o immediatamente inferiore. In pratica se si decide di lavorare sulla famiglia come totalità bisogna tenere sotto osservazione ciò che il cambiamento produce nella famiglia allargata e nei singoli sottogruppi che compongono la famiglia. Se si pensa di modificare la famiglia come totalità intervenendo sui singoli membri senza tenere conto dell’effetto che si produce sui sottogruppi, l’intervento diventa meno puntuale e meno efficace.

La causalità circolare e lineare come coessenziali: il principio dì ragion sufficiente o causalità. afferma che l’evento B dipende soltanto dall’evento A, ossia l’evento A causa l’evento. B. Ciò può essere applicato alle partì di un sistema, tra le sue parti e la ·sua totalità e viceversa. La causalità circolare non soppianta quella lineare ma ne richiede l’applicazione in un modello strutturale. L’intervento che si fa sulla coppia in una famiglia determina un cambiamento sia nei singoli individui, sia nella famiglia come totalità. Nello scegliere l’intervento, quindi, si deve considerare anche i suoi effetti sugli altri livelli logici.

I costrutti d’identità e relazione: in ogni intervento bisogna salvare sia l’identità/autonomia di ogni sistema, sia la sua capacità di creare relazioni di crescita per sé e per gli altri sistemi. La famiglia allargata deve essere capace dì sostenere l’autonomia delle singole famiglie che la compongono e costruire relazioni salutari tra loro. La famiglia deve essere capace di facilitare la crescita autonoma del sottogruppo genitoriale e del sottogruppo figli, permettendo anche sane relazioni tra essi. Il sottogruppo coppia deve permettere l’autonomia del marito e della moglie e una buona capacità di relazione tra di loro. Lo stesso vale per il sottogruppo dei figli, che deve permettere l’autonomia e il dialogo tra fratelli. Nero/rigido/bianco: sono le categorie fondamentali in cui nel MSI sono identificati i diversi sistemi. Si ha un sistema nero se è ricco di elementi che non riesce bene a integrare; si ha un sistema bianco se è povero di elementi, anche se funziona bene a livello degli elementi che possiede. Si ha un sistema rigido se è costituita da due sottosistemi fondamentali di cui uno dominante e contro l’emergere dell’altro sottosistema.

Confluenza/Dissociazione: Sono le categorie relazionali fondamentali, di tipo disfunzionale, sia tra le parti e il sistema in cui sono inserite, sia tra le parti del sistema. La confluenza impedisce una sana differenziazione tra le identità in relazione (= dove si prevede individuazione c’è invischiamento); la dissociazione non permette un sano rapporto (= dove si prevede una relazione c’è l’isolamento). I costrutti di “famiglia invischiata” e “famiglia disimpegnata”di S. Minuchin (1970, 1980) descrivono i modi fondamentali di relazionarsi all’interno della famiglia. Corrispondono ai meccanismi di confluenza per la prima e di dissociazione per la seconda applicati al sistema famiglia come totalità. Le interazioni, che lo stesso autore prende in considerazione, di “invischiamento” e “iperprotettività” corrispondono al meccanismo di confluenza; la seconda è una confluenza nel rapporto delle posizioni esistenziali di Genitore e Bambino. Le interazioni di “rigidità” ed “evitamento del conflitto” possono essere considerate due forme di dissociazione.

L’emergentismo, la libertà e la responsabilità: i modelli di psicoterapia che hanno come orizzonte valoriale il modello cognitivo comportamentale focalizzano l’apprendimento e il condizionamento; quelli che hanno come orizzonte le correnti psicodinamiche focalizzano il determinismo pulsionale; quelli che fanno riferimento alla corrente umanistico fenomenologico esistenziale pur accettando i costrutti di apprendimento, condizionamento e quello di motivazione(= pulsione) focalizzano la capacità di ogni sistema di emergere in novità (= emergentismo) rispetto al condizionamento e al desiderio. Specificamente per il sistema uomo prendono in considerazione i costrutti di libertà di scelta e di responsabilità etica. In tale orizzonte il sistema famiglia si rivela meno centrato del sistema individuo, perché a esso i costrutti di libertà e responsabilità possono essere attribuiti solo mediante gli individui che la compongono.

In termini clinici dobbiamo concludere che la psicoterapia di famiglia è lo strumento che permette ai singoli individui che la compongono di realizzare i propri fini. Scopo di ogni psicoterapia è la salute del sistema uomo: ogni intervento sia individuale, sia di coppia, sia di famiglia, sia di gruppo ha come scopo la salute del sistema uomo.

La psicoterapia di coppia ha lo scopo di permettere ai partner di stare bene in coppia o di separarsi e realizzarsi come individui in altre relazioni.

La psicoterapia di famiglia ha lo scopo di permettere a ogni membro di realizzarsi rispettando le regole del contesto in cui vive.

Lo psicoterapeuta in base alla salute di ogni paziente sceglie da quale livello logico cominciare a lavorare, ossia con una psicoterapia individuale, di gruppo o famiglia e sceglie anche come proseguire; si può iniziare con una psicoterapia individuale e poi approdare a una di coppia o di famiglia, per poi riprendere la psicoterapia individuale. Ogni scelta va fatta in funzione della salute del sistema individuo oggetto della cura”.

 

1.1.2. Limiti negli studi della terapia familiare sull’anoressia

Ho ritenuto importante riportare le osservazioni del professor Ariano su quelli che sono stati gli studi esistenti a riguardo. Così scrive ancora nel libro “Il corpo muto” (anno 2010- pagg 249-251): “Credo che i contributi che la psicoterapia di famiglia abbia apportato nel settore dei disturbi del comportamento alimentare, siano stati molto enfatizzati. L’orientamento generale dei clinici verso un modello multidimensionale di psicoterapia di famiglia né è prova. Mi piace evidenziarne alcuni limiti affinché per il futuro la pratica clinica possa essere più efficace.

 Creare categorie psicopatologiche più differenziate. Come ho spesso affermato la categoria dei DCA è generica e confusa. Tutte le ricerche che partono da simili categorie non possono che approdare a conclusioni generiche. Le categorie della Selvini Palazzoli di anoressia di tipo A, restrittiva e di tipo B, bulimica purgativa ne sono un esempio; mancando la chiarezza dello specifico dell’anoressia e della bulimia approda a conclusioni confuse. La Selvini considera l’anoressia di tipo A, come anoressia restrittiva e quella di tipo B, come anoressia con abbuffate e condotte di eliminazione. In realtà quella di tipo A è un’anoressia mentre quella di tipo B credo debba essere considerata una bulimia nervosa, che ha poco in comune con l’anoressia e anche con quella purgativa. Infatti, la maggior parte delle forme di DCA emergenti nel mondo contemporaneo sono patologie con i sintomi secondari dell’anoressia, senza il sintomo primario. Se non si fa chiarezza, si conclude per risultati benevoli verso l’anoressia; in realtà queste ricerche non riguardano la vera anoressia.

 La necessità di un modello di psicoterapia familiare più puntale e differenziato. Tutti conosciamo l’enfatizzazione data al sistema come totalità a scapito delle parti che lo compongono e dei molteplici livelli logici. Oggi si comincia ad accennare alla “multidimensionalità” da prendere in considerazione nella psicoterapia familiare; sembra, però, ancora un’aspirazione che non si sostanzia nella costruzione di modelli più differenziati. La mancanza di modelli puntuali porta a conclusioni errate e generiche. Per esempio i costrutti di famiglia invischiata e di famiglia disimpegnata di S. Minuchin non sono specifici delle famiglie con paziente designata anoressica. Il coinvolgimento della paziente anoressica con un genitore o con l’altro, ipotizzato dalla Selvini, salta dal livello logico del sistema generale a quello degli individui, sottovalutando il livello dei sottogruppi. La semplicità dei modelli ha generato miti onnipotenti da cui uno psicoterapeuta che lavora con pazienti gravi, come le anoressiche, deve vaccinarsi.

Dai contenuti ai modelli, dai miti alle relazioni costruttive possibili. In psicoterapia non è facile declinare i contenuti e i modelli. La psicoanalisi può avere come contenuto la teoria pulsionale, quella delle relazioni oggettuali ed essere anche un modello di cura. Spesso i due livelli sono contaminati. Nella psicoterapia di famiglia applicata all’anoressia, si sono inventati molti “miti magici”. Il mito della paziente, “capro espiatorio” del sistema famiglia, quello della paziente come “scioperante della fame”, il mito dello “stallo della coppia” che la paziente protegge, il mito della “famiglia vuota, serena e onnipotente”, “il mito dell’onnipotenza dell’intervento paradossale”, sono espressioni colorite adatte a descrivere intuizioni per, piccoli interventi, ma non sono la formula strutturale dei sistemi familiari che generano l’anoressia.

Dal modello mitologico al modello decisionale. Spesso nella psicoterapia della famiglia è stato utilizzato un modello “epifanico” che annuncia verità misteriose e deresponsabilizzanti. Lo psicoterapeuta familiare ha vestito i panni del profeta che rivela verità sconosciute, che una volta palesate, produrranno effetti miracolosi. Bisogna che si ritorni a una visione più umana dello psicoterapeuta della famiglia; egli è solo un professionista che insegna a comunicare in modo corretto tra i sistemi e all’interno dei sistemi, rendendo ogni individuo capace di prendere decisioni più consapevoli, in funzione degli scopi che si prefigge di raggiungere nella vita. Credo che come psicoterapeuti di famiglie con pazienti anoressiche abbiamo un compito arduo da intraprendere, consapevoli che i problemi si affrontano con fatica e ritmi umani, più che con magiche formule infantili.”

Come si può notare il professor Ariano è molto esplicito nell’evidenziare gli ostacoli che ci impediscono di giungere ad una modalità lavorativa che produca guarigione dalla malattia a lungo termine. Un modello di riferimento che sappia coniugare più elementi possibili al suo interno in modo strutturato ed integrato, ma anche disponibile a dialogare con gli altri modelli, questo è ciò che ho cercato e trovato nel Modello Strutturale Integrato (MSI) che ora illustro.

1.2 Il modello strutturale integrato (MSI)

Partirò da alcune precisazioni sulle parole chiave che possono facilitare la comprensione del modello strutturale integrato in riferimento alla terapia familiare, così come vengono definite dal dottor Del Prete in un suo articolo sulla terapia familiare nel testo “Fenomenologia e Integrazione” del settembre 2001 (pagg. 447-449):

 “La parola “Modello” è usata all’interno di un’idea di realtà non conoscibile se non inserita all’interno di un modello simbolico costituito dall’uomo. Usando un’analogia, il modello potrebbe identificarsi con la rete dei pescatori; le sue maglie possono catturare una certa grandezza di pesci, già determinata dai postulati con cui è costruita la rete stessa; la distanza fra i suoi nodi condiziona la larghezza tra le maglie: al variare della distanza, varia contemporaneamente la grandezza del pescato.

 All’interno del Modello Strutturale Integrato consideriamo centrali alcuni postulati: Energia (Parti), Struttura (Formula strutturale), Sinolo (Totalità), sono i concetti indispensabili assieme a quelli di identità, relazione e livelli logici, per poter definire qualsiasi cosa.

Ogni identità si può definire soltanto in una relazione ed è costituita da Parti (Energia) che, attraverso una formula di collegamento, si costituiscono in una totalità (Sinolo). In questa visione strutturale i livelli logici consentono di introdurre il concetto di gerarchia: ogni cosa che identifichiamo come parte, infatti, al livello logico inferiore diventa una totalità anch’essa costituita da parti; ogni totalità, poi, diventa parte in un livello logico superiore dove trova una totalità più vasta che la contiene.

In questo lavoro consideriamo la famiglia come sistema generale, totalità rispetto alle parti che chiamiamo Sottosistemi. Questi ultimi, a loro volta, ad un livello logico successivo, saranno totalità rispetto alle parti che denominiamo Individui.

È intuitivo notare come nell’orizzonte della Terapia Familiare, per definire la totalità (Sistema Generale), abbiamo bisogno del concetto di parti (Sottosistemi) e allo stesso tempo le parti acquistano significato solo se riferite alla totalità più grande che le contiene attraverso la formula di collegamento.

 Totalità e Parti, Unità e Molteplicità, come si vede, pur appartenendo a livelli logici diversi, vengono usati allo stesso livello logico.

Ciò è inspiegabile, per ora, e tuttavia inconfutabile e necessario per poter definire qualsiasi cosa senza ridurre la realtà ad una totalità unica e scontata di cui dobbiamo scoprire le parti o eliminare le parti, perdendoci in totalità che non possiamo mai definire.

 La Consustanzialità di Totalità e Parti ci permette di salvare la bidimensionalità dello sguardo, l’unità insieme alla molteplicità del Mondo e soprattutto dell’Uomo.

 Come ai diversi livelli logici possiamo adoperare le medesime parole (Totalità e Parti), che via via acquistano significati diversi, così, al mutare del livello logico, tutte le parole del Modello Strutturale Integrato che utilizziamo per descrivere la Totalità Individuo, potremo usarle per descrivere totalità superiori.

Ad esempio, il concetto di Genitore, che nel Modello focalizza il dovere e si esprime nella capacità di prendersi cura sacrificando i propri bisogni, può essere usato a tutti i livelli della gerarchia, dall’individuo al Sottosistema, fino al Sistema Generale.

 Lo stesso vale per il concetto di Bambino, che focalizza il piacere, e per il concetto di Adulto, che armonizza i primi due soffermandosi su ciò che ritiene giusto. E ancora per i Linguaggi di Energia: il linguaggio Razionale che obbedisce alla legge della stabilità e condivisione; il linguaggio Fantastico con la legge della Polivalenza e Soggettività; il linguaggio Emotivo con la legge dell’Esistenza e quello Corporeo con la legge della Trasparenza.

Tutte queste totalità sono strutture integrate in modo gerarchico che utilizziamo per descrivere Individui, Sottosistemi e Sistema Generale. Attraverso la declinazione di queste totalità, il Modello Strutturale Integrato ci consente di individuare tre tipologie di strutture fondamentali che definiamo Nere, Bianche, Rigide, ciascuna con la sua peculiare formula di combinazione degli elementi costituenti.

Le Strutture nere sono caratterizzate da eccesso di Energia (parti) e carenza di formule di collegamento.

Le Strutture Bianche sono caratterizzate da eccesso di formule e carenza di energia.

Le Strutture Rigide presentano forte opposizione fra energia e struttura. Avendo definito le strutture principali, tentiamo di dare una breve spiegazione di ciò che intendiamo per Motivazione.

Con un linguaggio metaforico la Motivazione può essere vista come l’arco che si tende per scoccare una freccia per raggiungere un bersaglio, che, pur essendo irraggiungibile, dà senso al gesto.

Fuori dall’Analogia, abbiamo necessità di riferirei ad altri concetti: Equilibrio/Crescita; Dissociazione-Confluenza-Integrazione; Valore.

Crescita ed Equilibrio sono concetti insignificanti se considerati isolatamente: la crescita è il raggiungimento di un nuovo equilibrio, che, a sua volta, è base per una crescita ulteriore.

Si tratta, anche qui, di concetti consustanziali così come quelli di Energia e Struttura o di Unità e Molteplicità: l’Equilibrio focalizza l’identità, la totalità raggiunta o di partenza; la crescita focalizza più le parti in cerca di una struttura (formula) che le costituisca in unità.

La Motivazione è collegata ai meccanismi di funzionamento: Dissociazione, Confluenza, Integrazione.

La Dissociazione rispetto alla confluenza è caratterizzata da un eccesso di struttura. Essa provvede al mantenimento dell’Unità (Equilibrio) attraverso la separazione delle parti che rimangono identità definite ma non integrabili tra loro.

La Confluenza è caratterizzata da un eccesso di Energia. Essa provvede al mantenimento dell’Unità (Equilibrio), attraverso la confusione tra le parti, che, non potendo essere chiaramente identificate, non sono integrabili e restano perciò confuse.

L’Integrazione è caratterizzata da armonia fra Energia e Struttura, per cui le parti sono ben differenziate tra loro e allo stesso tempo unite in una Totalità.

La Motivazione, infine, come tutti i concetti, è parola insignificante se avulsa dall’orizzonte che la contiene. Nel Modello Strutturale Integrato l’orizzonte è costituito dai valori di Verità, Consapevolezza, Libertà, Responsabilità e Intersoggettività.

La Verità, come Orizzonte, è ipotesi di verità: se ne postula l’esistenza e l’irraggiungibilità; costituisce il fertile terreno comune in cui le singole verità, i modelli, possono superarsi. La Consapevolezza permette di distinguere ciò che si ritiene vero dal falso, ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. La Libertà dà il potere di scegliere, all’interno della propria consapevolezza, fra ciò che si ritiene giusto o sbagliato. La Responsabilità dà la forza e il peso di sentirsi colui che sceglie tra giusto e sbagliato. L’Intersoggettività permette di inserire l’altro nel proprio orizzonte con la stessa dignità”.

Nel lavoro clinico diventa necessario tener presente e chiaro ognuno di questi concetti, sia negli obiettivi della terapia, sia nella singola seduta psicoterapeutica.

1.2.1. La terapia familiare nel modello strutturale integrato

 Il Modello Strutturale Integrato del professor G. Ariano (1997; 2000; 2005) opera sia a livello di individuo, che di coppia che di sistema familiare o di gruppo. Pertanto è utile nell’applicazione pratica dei concetti precedentemente esposti l’articolo scritto dalla dottoressa Giulia Moscariello nel testo “Integrazioni” del dicembre 2007, che in modo chiaro ci mostra come e in che ordine utilizzare gli elementi del MSI nella terapia familiare. Leggiamo in esso (pagg. 159-162):

“In una psicoterapia familiare vanno distinti e valutati 3 livelli fondamentali:

  1. l° livello: il sistema generale;
  2. 2° livello: i sottosistemi (cioè le diadi o triadi che interagiscono maniera significativa e più o meno funzionale all’interno del sistema generale);
  3. 3° livello: i sistemi individuali (i singoli membri del sistema). Cosa è importante osservare a ciascun livello e con quali finalità?

Innanzitutto è necessario distinguere ciò che consideriamo sano, funzionale, normale da ciò che, invece, in base al modello epistemologico, antropologico e psicopatologico di riferimento, consideriamo disfunzionale, deviante, patologico.

La valutazione diagnostica di tutti e tre i livelli che abbiamo considerato ha un’importanza fondamentale nella costruzione di un progetto terapeutico, cioè nello stabilire le strategie di intervento più efficaci per realizzare il miglioramento funzionale di tutto il sistema familiare e di ogni singolo membro della famiglia. Le principali categorie diagnostiche da esplorare e declinare all’interno del sistema generale riguardano:

  1. il livello socio-culturale della famiglia;
  2. la fase del ciclo vitale che la famiglia sta attraversando;
  3. i postulati ed i valori fondamentali che guidano in maniera più o meno consapevole il nucleo familiare;
  4. colore dominante del sistema familiare (famiglie a struttura nera, rigida, bianca);
  5. l’eventuale presenza di salti generazionali;

6.il tipo di sintomo per cui viene richiesto l’intervento;

7.la gravità disfunzionale (nevrotica, border-line, psicotica).

Dopo l’iniziale fase di aggancio della famiglia e la valutazione diagnostica strutturale dei vari livelli è molto importante la ridefinizione terapeutica della richiesta d’intervento che consiste nel focalizzare l’attenzione spostandola dal sintomo di copertura al vero problema da affrontare.

La famiglia costituisce un luogo privilegiato per intervenire sulla sofferenza ed il disagio psichico allo stato nascente. All’interno del sistema familiare ogni comportamento ed ogni comunicazione dei singoli membri condiziona quelli di tutti gli altri e ne è, a sua volta, condizionato. Allo stesso modo l’intervento terapeutico su ciascun membro della famiglia influenza inevitabilmente tutto il sistema familiare, per questo il lavoro con il singolo individuo o con un sottosistema va sempre declinato con l’osservazione ed il lavoro terapeutico a livello del sistema generale e viceversa.

Il terapista partecipa alla costruzione eli ciò che osserva nella famiglia via via che seleziona e ordina gli elementi che raccoglie e le informazioni che acquisisce in base al modello di riferimento (=terza cibernetica).

La famiglia costituisce, inoltre, un sistema aperto e intenzionato al mondo esterno, con cui intrattiene un rapporto di costante interscambio, adattandosi in maniera più o meno funzionale alle diverse e complesse richieste dei vari stadi evolutivi che attraversa durante il proprio ciclo vitale:

La capacità di declinare in un equilibrio dinamico la tendenza alla crescita ed al cambiamento con il mantenimento della stabilità (tendenza omeostatica) consente al sistema familiare e ai suoi membri di sviluppare e realizzare le proprie potenzialità evolutive supportando ed incoraggiando le spinte all’autonomia e alla differenziazione senza per questo perdere la propria coesione interna.

La famiglia è anche il luogo dove ciascuno può sperimentare tutta la gamma di reazioni emotive, corporee e fantasmatiche che hanno a che fare sia con i vissuti di vicinanza, appartenenza, intimità, che con le esperienze di separazione, differenziazione, autonomia.

Un fattore fondamentale per stabilire la “salute” e il buon funzionamento di un sistema familiare è rappresentato dalla presenza di ruoli e confini chiari e ben definiti (ma anche sufficientemente flessibili da consentire l’adattamento a situazioni nuove) tra i singoli componenti del nucleo familiare e all’interno dei diversi sottosistemi. Questo implica una distribuzione del potere e della responsabilità funzionale alla crescita ed al benessere di tutti i membri della famiglia. Quando i confini diventano confusi e indifferenziati o, al contrario, sono eccessivamente rigidi, la comunicazione e le interazioni reciproche diventano disfunzionali producendo vari gradi di disagio e sofferenza psichici fino alla patologia conclamata. Altrettanto importante è la capacità del sistema di assicurare un valido sostegno emotivo ai suoi membri soprattutto nei delicati momenti critici di passaggio evolutivo o quando le pressioni dell’ambiente esterno diventano particolarmente difficili da gestire.

Per quanto concerne i sottosistemi, possiamo definirli come configurazioni diadiche o triadiche, all’interno del sistema generale, caratterizzate da relazioni particolarmente intense e significative da un punto di vista emotivo, che sottendono un’intesa a livello profondo.

Lo psicoterapeuta familiare deve rivolgere una particolare attenzione alla comunicazione non verbale e a tutte le reazioni emotivo-corporee dei singoli componenti del gruppo familiare per individuare l’esistenza di alleanze sotterranee o di vere e proprie simbiosi tra i vari membri della famiglia.

Le relazioni simbiotiche possono essere funzionali sia al mantenimento dell’omeostasi che al cambiamento, ma in entrambi i casi sono caratterizzate da interazioni, più o meno sotterranee e più o meno consapevoli, finalizzate a perseguire e realizzare uno o più scopi molto importanti per entrambi i membri della simbiosi (per esempio il bisogno di proteggersi rispetto al contattare tematiche che spaventano perché destabilizzanti). Alcuni importanti criteri possono guidare lo psicoterapeuta nel decidere quando può essere utile scegliere di proporre una terapia familiare:

  1. se il paziente designato è in età adolescenziale;
  2. se il paziente per i cui sintomi viene richiesto l’intervento terapeutico ha una diagnosi di notevole gravità e non è motivato al trattamento, per cui, se si ritiene che il contesto familiare sia più disponibile a collaborare, si possono utilizzare le risorse della famiglia per contenere e mettere regole al paziente;

 3 quando è necessario motivare il contesto familiare a collaborare con lo psicoterapeuta per poter realizzare gli obiettivi e i risultati previsti;

  1. quando si ipotizza eli poter raggiungere determinati risultati in modo più facile e veloce con una terapia familiare rispetto ad un trattamento individuale.

Nella fase diagnostica iniziale e lungo tutto il processo terapeutico il terapista familiare deve osservare e valutare il funzionamento sia a livello intrapsichico che interpersonale di ciascun membro della famiglia.

Per quanto concerne il funzionamento intrapsichico è importante porre domande volte ad esplorare le funzioni cognitive del soggetto e, in particolare:

1-la sua capacità di percepire in maniera sia attiva che passiva gli stimoli sensoriali provenienti dal mondo esterno;

2-a sua capacità di giudizio sia denotativo che connotativo e di ragionamento induttivo/deduttivo (cioè in che modo seleziona, discrimina ed organizza gli elementi della realtà esterna per costruire idee, concetti, credenze o, in altre parole, la sua peculiare visione del mondo e di sé in relazione al mondo);

 3- possiamo infine valutarne le capacità di memorizzare ciò che apprende dall’esperienza e come affronta creativamente la soluzione di problemi nuovi. Altrettanto importante è osservare e valutare con quali modalità il soggetto incarna il linguaggio emotivo e quello corporeo, con che livello di consapevolezza e con quali capacità di integrazione sia reciproca che con gli altri linguaggi di energia (cognitivo e fantastico).

In particolare, si può verificare come reagisce a livello emotivo nel relazionarsi sia con il proprio mondo interno che con la realtà esterna:

  1. se è in grado di provare sentimenti vivi e veri (cioè presenti a livello corporeo e quindi evidenti per chiunque sappia leggere il non verbale), adatti e funzionali alla propria e altrui crescita (anche rispetto all’intensità);
  2. se è capace di starci in contatto e di dargli un nome corretto o se, al contrario li vive fuori dalla consapevolezza;
  3. se riesce a dargli una direzione funzionale e coerente (individuare il giusto bersaglio) e a gestirli in maniera costruttiva e realistica (anche rispetto al contesto). Per quanto concerne il linguaggio corporeo, il terapista osserva e valuta la capacità del soggetto di comunicare (ricevere e inviare messaggi) in maniera spontanea e/o consapevole sia con sé (livello propriocettivo) che con il mondo esterno (livello della comunicazione non verbale) utilizzando il vocabolario delle sensazioni corporee e delle reazioni somatiche.

Nella pratica clinica, ovviamente, non è usuale riscontrare una congrua integrazione tra i vari linguaggi di energia, molto più frequentemente si rilevano varie intensità di dissociazione e talvolta un insufficiente sviluppo o una vera e propria atrofizzazione di alcuni linguaggi, soprattutto a livello emotivo – corporeo.

A livello interpersonale, infine, è utile verificare come ciascun soggetto incarna, nella relazione con gli altri membri della famiglia, in maniera più o meno flessibile e integrata le diverse posizioni esistenziali: quella del Genitore che sa prendersi cura dell’altro sia da un punto di vista affettivo che normativo, quella dell’Adulto che sa mediare e relazionarsi in maniera realistica con sé e con l’altro, quella del Bambino che sa far esistere i propri bisogni e chiedere che vengano soddisfatti. Declinando tutti questi livelli con le categorie di Energia (ricchezza degli elementi) e Struttura (modalità specifica di organizzare gli elementi in totalità) è possibile per il terapista strutturale integrato costruirsi un’idea abbastanza chiara di come funzionano a livello relazionale i vari componenti del nucleo familiare e quindi formulare un’ipotesi diagnostica abbastanza attendibile sia rispetto al funzionamento del sistema generale, che dei sottosistemi e dei singoli individui. L’orizzonte che guida le strategie di intervento nella psicoterapia strutturale integrata prevede, anche a livello di terapia familiare, l’obiettivo di stimolare lo sviluppo di quelle capacità che costituiscono lo specifico modo di funzionare ed esistere dell’essere umano inteso come identità in relazione con altre identità: la capacità di consapevolezza simbolica sia spontanea che riflessiva, la capacità di operare scelte libere e responsabili, la capacità di intersoggettività”.

La famiglia viene quindi “curata” come sistema, sia a livello di gruppo che di singolo e nelle relazioni tra loro; un lavoro ampio e complesso che se è coniugato adeguatamente nelle sue parti produce salute. Il Modello Strutturale Integrato nato per affrontare le psicosi gravi, si è sviluppato anche in modo specifico nel trattare famiglie con un membro “anoressico”. Gli elementi sono integrati tra loro e pur aumentandone la complessità sanno dare risposte chiare ed adeguate alle problematiche poste dalle patologie affrontate. Mi accingo quindi a dare ulteriori elementi che possano meglio chiarire le basi da cui è partito il mio lavoro clinico.

 

1.2.2.  Costrutti del MSI in famiglie con membro anoressico

 

Nel modello strutturale integrato si fa una differenziazione nella diagnosi di anoressia: non sempre chi ha una sintomatologia che nel DSM V viene definita anoressica, ha secondo il MSI, una diagnosi di struttura anoressica. Al contrario pur non manifestando una sintomatologia anoressica secondo il DSM V, si può avere diagnosi di struttura anoressica nel MSI. Quest’ultimo fa, innanzitutto, la differenza in sintomi primari legati alla struttura di personalità e in sintomi secondari che comprendono la sintomatologia anoressica, ma non necessariamente sono legati ad una struttura di personalità anoressica. Questo perché i sintomi secondari possono essere presenti anche in altre patologie, quindi non sono effetto diretto e necessario di una determinata patologia. Così li definisce Bleurer: “i sintomi secondari possono almeno parzialmente mancare o cambiare senza contemporanee modificazioni del processo patologico” (1911, 1985, 260). Pertanto sono considerati sintomi secondari l’amenorrea, il vomito o le restrizioni alimentari, che possono essere presenti o assenti nella diagnosi di struttura anoressica, ma possono anche essere presenti in diagnosi di altra struttura.

Diversamente, invece, come sostiene E. Bleuler (1911, 198.5, 260) i sintomi primari “sono manifestazioni parziali ma necessarie della malattia”. La struttura anoressica non si identifica quindi con il sintomo del rifiuto del cibo, ma secondo il MSI con un sintomo primario, il cosiddetto “corpo muto”. Secondo il MSI si parla di corpo “muto” quando, in base ai criteri della comunità in cui si vive, non si riesce a cogliere nessun messaggio dal proprio corpo o da quello dell’interlocutore. Nel testo “Il corpo muto” di G. Ariano (marzo 2010) si fa l’esempio dell’arrossire quando si ha vergogna (pag. 341): “se in situazioni in cui bisogna provare vergogna, il corpo non arrossisce, nonostante la persona ci riferisce di provarla, noi riteniamo che siamo alla presenza di un corpo muto, perché la vergogna riferita verbalmente dal nostro interlocutore è solo un costrutto sociale di cui egli non ha esperienza vissuta. Il corpo muto, in un soggetto socialmente inserito, evidenzia la soppressione totale del vissuto soggettivo a vantaggio di costrutti sociali.” Se vogliamo immaginare una linea su cui porre in un continuum le patologie secondo il MSI, la struttura anoressica si posiziona al punto estremo della linea, quindi con la maggiore gravità. Nel caso di diagnosi di struttura anoressica il corpo “muto” è il suo sintomo primario, ma connotato dalla maggiore gravità rispetto a tutte le altre diagnosi di struttura, secondo il MSI. Questo perché non essendo entrata nel mondo dei desideri vitali ragionano come macchine e si relazionano agli esseri viventi con una logica meccanica (intelligenza meccanica). Il suo funzionamento strutturale è articolato con: a. una personalità di superficie di tipo meccanico con linguaggi di esistenza meccanici (corpo muto, emozioni non vere, fantasie razionali, razionalità meccanica), posizioni esistenziali meccaniche (genitore, adulto, bambino), anelli della vita meccanici (evidenza naturale, Sé spontaneo, sé riflesso soggettivo ed intersoggettivo, Sé contingente e storico); b. una personalità di profondità caotica muta al desiderio e al bisogno dell’altro in quanto altro; c. la distanza che intercorre tra le due personalità che permette l’emergere o meno dei sintomi secondari.

Riepilogando abbiamo una personalità di superficie di tipo meccanico (corpo muto, emozioni non vere, fantasie di tipo razionale, pensiero meccanico) e una personalità di profondità di tipo caotico che rifiuta il bisogno di entrare nel mondo del desiderio e della relazione. Se la distanza tra le due personalità diminuisce allora emergono i sintomi secondari. Se ciò non avviene la struttura anoressica è caratterizzata da uno stile di personalità centrato su una forte socialità anaffettiva, un forte sadismo nei rapporti più veri, una onnipotenza che rasenta la negazione delle leggi della fisica ed un pensiero rigido e frammentato.

Queste differenze così profonde con gli altri modelli psicopatologici, sono state per me fondamentali nel lavoro svolto. E’ partendo da ciò che anche la terapia familiare ha assunto un percorso a mio parere, del tutto innovativo rispetto ai modelli che conoscevo, nella cura delle anoressie. Purtroppo queste poche righe non possono chiarire l’ampiezza del concetto di corpo muto, che è dietro questa breve definizione e più volte ho approfondito il testo citato per capire esattamente cosa si intende nel MSI con “mentale” a cui è legato il concetto di “corpo muto”. Rimando quindi ad una lettura del testo, citando soltanto un brano al suo interno, in cui si fa riferimento alla cura dell’anoressia in terapia familiare, oggetto di questo lavoro. Ecco cosa il professor G. Ariano scrive (pag.251) “Ho affermato che le pazienti anoressiche con sintomo primario approdano alla psicoterapia perché all’interno della loro famiglia un membro evidenzia sintomi secondari non specificamente di tipo anoressico…Ritengo anche che le anoressiche con sintomi primari e con sintomi secondari, approdino in psicoterapia perché i familiari si sentono impotenti e la paziente designata non vuole curarsi. E’ indispensabile (la terapia familiare) per superare l’egosintonia sintomatica delle pazienti anoressiche e farle così diventare pazienti capaci di intraprendere una psicoterapia individuale”.

Continuando il professor Ariano specifica con cura certosina come è articolato il sistema familiare quando è presente questo tipo di struttura e questa sintomatologia (pagg.252- 260): “il sistema familiare con un membro anoressico è di “colore rigido” con una modalità relazionale dissociativa. Il membro anoressico sta nel sottosistema dominante; questo a sua volta può essere “bianco” o “rigido”.

Perché ci possa essere una anoressica con sintomo primario è necessario: a. una famiglia di “colore rigido” e modalità relazionale dissociativa; b. l’appartenenza dell’anoressica al sottogruppo dominante che può essere di “colore bianco” o “colore rigido”; c. se il sottogruppo dominante è di “colore bianco” si avrà una anoressia solo con sintomo primario; se è di “colore rigido” o di “colore nero” con modalità relazionale confluente si avrà un’anoressia con sintomo primario e anche con i sintomi secondari.

Le osservazioni che seguono sono basate sull’esperienza più che trentennale di lavoro clinico, didattico e di ricerca e su un ragionamento ipotetico deduttivo. Il punto di partenza del ragionamento può essere considerato arbitrario: l’anoressica con sintomo primario che si sposa, a quale sistema familiare può dare vita? L’arbitrarietà può essere mitigata dalla considerazione che le anoressiche anche con sintomi secondari difficilmente approdano al matrimonio. Se hanno debellato i sintomi secondari o sono guarite, non rientrano in questa ipotesi. Se sono migliorate ritornando al solo sintomo primario, possono rientrare nell’ipotesi.

L’ipotesi non esclude la possibilità dell’esistenza di un’anoressica sia con solo sintomo primario, sia con sintomo primario e sintomi secondari al di là dei sistemi familiari che saranno descritti in base all’ipotesi fatta. L’esperienza clinica, sebbene non sottoposta ancora a ricerca randomizzata, non ha evidenziato l’esistenza di sistemi familiari con paziente anoressica con sintomo primario, diversi da quelli emersi dall’ipotesi fatta. Possiamo concludere con sufficiente certezza di poter descrivere la tipologia di sistema familiare possibile per un’anoressica con sintomo primario. Ipotizziamo che un’anoressica con solo sintomo primario convoli a nozze; ha tre possibilità:

– Si può sposare con un partner di colore “bianco”.

– Si può sposare con un partner di colore “nero”.

 – Si può sposare con un partner di tipo “rigido”, per esempio una struttura paranoica.

Le possibilità di abbinamento variano in base al “colore” del partner; la possibilità con il partner “bianco” è alta, col partner ”rigido” è discreta, con quello “nero” è sufficiente.

Ipotizziamo che tali coppie abbiano due o tre figli. Queste famiglie se non sapranno gestirsi, potrebbero creare le seguenti tipologie di famiglia:

La coppia anoressica con partner bianco costituirebbe un sistema famiglia rigido con due sottosistemi: il sistema dominante, costituito dalla madre e dai figli, il sottosistema periferico costituito solo dal partner. Il sottosistema dominante è un sistema rigido a sua volta composto da due sottogruppi; il sottosistema dominante costituito dalla madre e da un figlio sarà di colore bianco e con modalità relazionale dissociativa; il sottosistema periferico sarà costituito dall’altro figlio e sarà di colore nero ed è probabile che possa diventare uno psicotico o un caratteropatico.

La coppia anoressica con partner nero costituirebbe una famiglia rigida con modalità relazionale a metà strada tra li dissociativo e il-confluente. Il sottosistema dominante sarà costituito dalla madre e da un figlio; sarà di colore bianco con stile relazionale dissociativo; il sottosistema periferico sarà costituito dal padre e dall’altro figlio che sarà di colore nero e con modalità relazionale simbiotica. La coppia anoressica con partner rigido, per esempio un paranoico, può dare vita a una famiglia rigida con modalità relazionale che oscilla continuamente tra la dissociazione e la confluenza. Il sottosistema dominante sarà nero con una modalità relazionale di tipo confluente e il sottosistema recessivo di tipo nero con modalità relazionale di tipo dissociativo.

L’ipotesi fatta conferma le regole emerse circa la struttura del sistema famiglia con un membro con sintomo primario di anoressia: a. una famiglia di colore rigido e di tipo relazionale dissociativo; b. l’appartenenza dell’anoressica al sottogruppo di potere che può essere sia di colore bianco sia di colore nero, sia di colore rigido; c. se in tale sottogruppo è di colore “bianco” si avrà un’anoressica con solo sintomo primario; se il sottogruppo è “rigido” o “nero” con modalità relazionale confluente si avrà un’anoressica con sintomo primario e anche con i sintomi secondari.

Nel trattamento di una famiglia con paziente anoressica con sintomo primario colpisce la non osservanza dei livelli logici all’interno dei sottosistemi. In una famiglia sana oltre a una comunicazione chiara a livello cognitivo, emotivo e corporeo, bisogna salvare anche le relazioni derivanti dalle posizioni esistenziali (Genitore, Adulto, Bambino). I sottogruppi dominanti dovrebbero essere il gruppo genitoriale con la doppia funzione di coniugi (Adulto/Adulto) e di genitori (Genitore/Bambino) e quello dei figli con la doppia funzione di figli (Bambino/Genitore) e di fratelli (Adulto/Adulto). Ciò che stabilmente emerge è il salto generazionale; nella famiglia con madre anoressica e padre sia di colore “nero”, sia di colore “rigido”. In genere, un figlio fa coppia con il padre e un altro fa coppia con la madre. Nella famiglia con un padre “bianco” il padre diventa periferico costituendo un sottosistema a sé e la madre costituisce un gruppo con i figli; all’interno di quest’ultimo gruppo ci sono altri due sottogruppi di cui uno dominante, la madre con un figlio al suo stesso livello logico e l’altro costituito dal figlio tenuto sullo sfondo.

Nel trattamento della psicoterapia di famiglia con membro anoressico con sintomo primario diventa indispensabile perseguire i seguenti scopi:

– Ricostituire i sottogruppi in base al livello logico naturale. Primo scopo di ogni psicoterapia di famiglia è riportare per quanto è possibile alla ricostituzione dei sottogruppi “naturali”. I genitori devono costituire un sottogruppo e i figli, un altro sottogruppo. La rottura di questa regola permette salti generazionali che se diventano stabili sono sempre fonte di patologia. Non sempre è possibile realizzare questo scopo; alcune volte bisogna creare sottogruppi intermedi meno patologici per raggiungere lo scopo.

– Riequilibrare il potere tra i sottogruppi. Il secondo scopo consiste nel riequilibrare il potere dei sottogruppi valorizzando i rispettivi pregi e neutralizzando i difetti e i limiti. Con le giuste strategie bisogna valorizzare il gruppo recessivo stimolandolo a difendere ciò che vede e a far notare gli errori al gruppo dominante.

– Mettere le basi per far diventare adulti responsabili i singoli membri della famiglia. Nel ricostruire i gruppi e i sottogruppi ”naturali” si dovrà insegnare a ogni membro a essere chiaro con sé e gli altri a saper rispettare le regole del proprio ruolo e far rispettare le regole del ruolo agli altri. Tutto ciò richiede maggiore consapevolezza di sé e degli altri per imparare a dialogare in modo possibile e realistico.

Nelle famiglie gravemente disturbate è difficile raggiungere questi scopi; in base alla gravità e alla motivazione di ogni membro si procede, senza svalutare i piccoli passi raggiunti da ognuno e i semi di una possibile evoluzione in positivo”.

Questi gli elementi basilari da cui partire e che sono stati il mio riferimento nel caso clinico affrontato. Non avendo esperienza precedente, la difficoltà per me è stata grande, ma anche in questo ho trovato maggiori delucidazioni su come procedere a piccoli passi nel lavoro di intervento psicoterapico nel testo citato, di cui vado a segnalare gli elementi essenziali.

 

1.2.3. Tappe della terapia familiare con anoressica

 

Per raggiungere gli scopi illustrati nel precedente paragrafo il professor Ariano da degli obiettivi di riferimento per procedere nel percorso terapeutico, in modo da tener presente i rischi e le possibilità che si possono incontrare nel lavoro con tali famiglie. Nel prezioso testo “Il corpo muto” prosegue con il seguente brano (pagg.261-268): “L’anoressica con solo sintomo primario chiede aiuto per due motivi fondamentali: a. perché un membro della sua famiglia sta male. In genere la struttura anoressica è la madre e il paziente designato è un figlio. b. Poiché le situazioni stressanti hanno messo in crisi il suo corpo muto e la sua intelligenza meccanica accentuando il meccanismo di controllo, si è scatenata un’angoscia poco gestibile. Tale angoscia la spinge a chiedere aiuto. Se vi è una paziente anoressica sia con sintomo primario sia con sintomi secondari, è la sua famiglia a chiedere aiuto perché lei non ha coscienza della malattia.

Il processo di psicoterapia con questi pazienti prevede le seguenti tappe fondamentali: a. motivare la famiglia alla psicoterapia e infondere speranze realistiche di cura; b. risistemare i sottogruppi della famiglia e renderli più funzionali in base ad un modello di famiglia sana, di riferimento; c. chiusura della psicoterapia di famiglia e probabile continuazione con la psicoterapia- di coppia e psicoterapia individuale.

Una volta che lo psicoterapeuta ha stabilito la necessità della psicoterapia di famiglia, deve motivare e agganciare in modo realistico tutti i membri in base al potere che rivestono nella famiglia. In questa fase lo psicoterapeuta ha due scogli da evitare: a. il braccio di ferro sul sintomo; b. motivare e “sedurre” chi ha il potere nella famiglia in modo che continui a portarla in psicoterapia.

Circa il sintomo, quando è la struttura anoressica con il sintomo primario a portare la famiglia in psicoterapia, non è difficile far il passaggio dalla richiesta sintomatica a quella psicoterapica, ossia passare dal sintomo per cui si chiede aiuto, al mettere a fuoco i problemi della famiglia. Se si chiede di esprimere a ogni membro ciò che gli piace (risorse) e ciò che vorrebbe cambiare (problemi) nella famiglia e lo psicoterapeuta ne fa una traduzione chiara utilizzando la connessione tra il linguaggio cognitivo e il linguaggio emotivo, si fa un buon aggancio e si accende la speranza per un cammino di cura. Se la paziente designata è l’anoressica con sintomo primario e con sintomi secondari, il lavoro sul passaggio dal sintomo al problema è più difficile; richiede di mettere in crisi il rapporto di potere tra chi utilizza il sintomo per segnalare che nella famiglia vige uno stile relazionale disfunzionale e chi vorrebbe eliminare il sintomo per lasciare la famiglia nella sua omeostasi. C’è una guerra all’ultimo sangue all’interno del sottosistema di potere a chi spetta la direzione della missione della famiglia. In questo caso bisogna sia stemperare il clima di guerra, sia cautelare la paziente dal rischio di morte. La strategia, cui ho già accennato, del “contratto di curarsi in situazioni di pericolo di vita”, che deve essere accettato sia dalla paziente sia dalla famiglia, prima di intraprendere la psicoterapia, permette di raggiungere ambedue gli obiettivi. Elimina in modo realistico il motivo della guerra tra la paziente designata e la sua famiglia, rasserenando gli animi. La paziente, impegnandosi a seguire le cure del medico se c’è pericolo di vita, elimina la lotta che fa con i familiari per il cibo. Il clima di serenità che ne consegue permette di mettere a fuoco le relazioni disfunzionali della famiglia.

Il secondo scopo consiste nel motivare e “sedurre” la famiglia a intraprendere la psicoterapia. Per le famiglie in cui l’anoressica con solo sintomo primario porta la famiglia in psicoterapia è possibile raggiungere tale scopo attraverso una comunicazione chiara tra i suoi membri. Se si seguono i principi generali cui ho accennato e si declinano insieme nella comunicazione, il linguaggio cognitivo e quello emotivo, la comunicazione diventa possibile e chiara. Ciò permette di motivare tutti i membri della famiglia, ma specialmente la madre, anoressica con solo sintomo primario, e il paziente designato; quest’ultimo sentendosi capito trova nello psicoterapeuta un alleato; la madre anoressica s’innamora della capacità dello psicoterapeuta e inconsapevolmente lo elegge suo alleato; si illude che questi realizzerà gli scopi per i quali lei ha dovuto dichiararsi sconfitta. L’aggancio con la famiglia con paziente designata anoressica con sintomo primario e con sintomi secondari è più complesso. La famiglia ha rapporti più rigidi, per cui anche la comunicazione chiara può essere utilizzata dai membri per litigare. Bisogna scegliere un livello di comunicazione meno coinvolgente, un po’ dissociato dall’emotività; se si contattano le emozioni in modo delicato sarà possibile un aggancio reso possibile da una comunicazione meno litigiosa anche se non eccessivamente coinvolgente.

In questa fase della psicoterapia, oltre che tenere presente i sottogruppi della famiglia e tra essi quello dominante, è bene avere chiaro le strutture di personalità di entrambi i membri della coppia da cui è nata la famiglia. Nelle famiglie con coppia genitoriale di cui uno anoressico con sintomo primario e l’altro di colore “nero” o colore “rigido”, l’aggancio è più facile perché il gruppo recessivo costituito dal membro di colore rigido o nero e da un figlio, in genere ha buone potenzialità, che non sa sfruttare. Evidenziare tali capacità crea più vitalità nella famiglia. Bisogna solo prestare attenzione a non attivare la paura del gruppo dominante di perdere il controllo. Nelle famiglie con moglie anoressica con sintomo primario e partner di colore bianco, il lavoro di aggancio è più difficile sia perché il partner è troppo periferico, sia perché è succube della moglie. E’ difficile anche perché i figli sono alleati con la madre, che idealizzano. Consapevole di queste difficoltà, lo psicoterapeuta è portato a fare interventi più delicati; se essi non sortiscono l’effetto desiderato, dovrà diventare più tollerante e tentare interventi ancora più tenui.

Lo scopo della psicoterapia di famiglia è permettere sia al paziente designato sia agli altri membri della famiglia di prendere coscienza dei modi di essere disfunzionali e all’interno del sistema famiglia e di ciascuno di essi. Per raggiungere questo scopo diventa fondamentale sia l’analisi dei sottosistemi dominanti all’interno della famiglia, sia l’analisi strutturale di ogni suo membro, nonché riportare i sottogruppi patologici nella norma. Il salto generazionale che è comune in queste famiglie, rivela difficoltà relazionali nella coppia genitoriale; svela, inoltre, la difficoltà di saper condividere regole in modo adulto e ancora di più quella delle relazioni intime. Per raggiungere questo scopo diventa fondamentale sia l’analisi dei sottosistemi dominanti all’interno della famiglia, sia l’analisi strutturale di ogni suo membro.

Ho già evidenziato che le famiglie con madre anoressica e con sintomo primario e partner nero o rigido hanno una prognosi più positiva; quelle con partner bianco ne hanno una più negativa.

Nella prima bisogna educare la coppia a diventare capace di dialogo nel gestire i problemi dei figli e imparare a condividere l’aspetto genitoriale affettivo e normativo dell’essere genitori. Questo lavoro, nella misura in cui li rende più efficienti come genitori, può generare delle resistenze causate dalla possibilità di rompere la negazione sui problemi d’intimità nella coppia. Lo psicoterapeuta, pur rassicurando la coppia, ed educandola a essere più tollerante con questi limiti, rimanda l’affrontarli a quando avranno imparato ad essere genitori. Il luogo più adatto è la psicoterapia di coppia che potranno fare, se ne sentiranno la necessità. E’ pericoloso affrontare i problemi di coppia mentre sono impellenti i problemi legati all’esser genitori. Farlo crea caos nel sistema, mettendo le premesse per ritornare ai vecchi equilibri patologici. Non permette, inoltre, ai figli di ritornare a essere fratelli. La coppia genitoriale, anche se non eseguirà una sua psicoterapia di coppia, dopo questa fase può approdare a una separazione più o meno burrascosa, o a una accettazione più realistica dei propri pregi e difetti. Contemporaneamente al lavoro con la coppia si esegue il lavoro con i figli con i seguenti scopi:

 -Insegnare a questi a sapersi difendere dai genitori quando sono triangolati da loro per non affrontare i problemi di coppia.

 -Imparare a essere figli, ossia accettare in modo critico, le norme messe dai genitori, con la consapevolezza che finché sono figli devono osservarle, anche se non le condividono.

 -Imparare a non utilizzare il disaccordo tra i genitori per il proprio tornaconto triangolandoli a proprio piacimento. -Imparare a vedere i limiti e pregi dei genitori facendosi una propria idea di essi e continuando a rispettarli, anche se si conclude per un giudizio negativo.

-Imparare a collaborare con i fratelli vedendone i pregi e i difetti.

-Imparare ad accettare i propri limiti e quelli degli altri se sono difficili da affrontare o non vogliamo modificarli.

Nella famiglia con una struttura anoressica con solo sintomo primario e partner di colore bianco, il lavoro è più complesso e deve avere mete più realistiche. I sottosistemi sono più rigidi e difficili da modificare. E’ difficile riportare i partner della coppia a essere adulti che si rispettano, trattandosi con pari dignità. Bisogna lentamente far prendere coscienza che nella coppia genitoriale uno dei partner (l’anoressica con solo sintomo primario) è dominante e ha un partner specializzato ad assecondarla. Questa consapevolezza porta solitudine nella coppia, ma anche a un rispetto maggiore per il ruolo del partner dipendente. Questi non sarà più il mastino utilizzato dalla moglie per i suoi scopi, ma il partner/figlio disposto a fare ciò che la moglie gli chiede. Bisogna educare il gruppo dei figli a:

-rompere la simbiosi idealizzante con la madre, prendendo le distanze da lei;

-purificare la rabbia che provano verso il padre, in ciò manipolati dalla madre;

-imparare a intrattenere rapporti realistici con la figura paterna, apprezzandone le qualità, nonostante i suoi limiti;

-accettare di essere genitori di se stessi, ossia degli adulti responsabili, nonostante continuino a essere figli;

-imparare a essere genitori dei loro genitori, proteggendoli nei loro limiti;

-dialogare tra i fratelli in modo responsabile.

Ho affermato che la paziente anoressica vive in una famiglia rigida e fa stabilmente parte del sistema dominante. Lei è aggrappata al potere che difende con caparbietà. Lo psicoterapeuta prima di scalfire tale potere deve essere sicuro che i membri del gruppo recessivo siano pronti a seguirlo con senso di realtà. Deve essere capace di cogliere i segni che annunciano la manovra dell’anoressica di minacciare di sospendere la psicoterapia e spesso anche di interromperla per qualche tempo. Deve stare attento a non cadere nel gioco del braccio di ferro. Questa si fida del suo potere e crede che gli altri la seguiranno nella chiusura della psicoterapia. Lo psicoterapeuta deve essere pronto a tale manovra; deve rimandarla il più possibile e deve affrontare il problema del controllo solo quando è sicuro che gli altri membri della famiglia siano motivati a continuare la psicoterapia anche contro la volontà della paziente anoressica. Questi non deve dimenticare che l’attacco finale al gruppo dominante della famiglia e il momento più critico del processo della psicoterapia.

Il lettore può meravigliarsi degli scopi ristrutturanti di questo progetto psicoterapico. Lo rassicuro affermando che sono solo delle linee guida 1a cui realizzazione permette a ogni membro della famiglia di poter diventare autonomo il più possibile. Lo scopo può essere realizzato in diverse tappe. Mi piace concludere questo paragrafo richiamando la chiarezza delle mete di una psicoterapia di famiglia, ma anche la consapevolezza che queste possono essere realizzate in gradi diversi. Ogni psicoterapia va considerata un aiuto a vivere meglio, piuttosto che una cura che porti a una guarigione in cui ciascuno proietti ideali irrealistici. Tale consapevolezza è necessaria con tutte le forme di sofferenza mentale; è indispensabile nel trattamento dell’anoressia.

Se il lavoro di ristrutturazione dei sottosistemi della famiglia è stato portato a termine non solo sarà scomparso il sintomo per cui la famiglia ha chiesto aiuto, ma si saranno purificate molte relazioni patologiche all’interno della famiglia. Si è presa inoltre abbastanza consapevolezza della serietà dei problemi intrapsichici e relazionali e si è stati educati anche ad affrontarli con più senso di realtà. La psicoterapia potrebbe essere chiusa con serenità. L’esperienza clinica rivela un decorso sfaccettato. A metà del processo di psicoterapia di famiglia si prende coscienza non solo dell’esistenza di “relazioni patologiche”, ma anche dell’impossibilità di poterle modificare se non si procede a un lavoro di ristrutturazione del sistema individuo. Con tale consapevolezza, già durante la psicoterapia di famiglia alcuni membri chiedono di intraprendere una psicoterapia individuale, tra questi c’è di solito il paziente designato. Anche la maggior parte delle coppie genitoriali intraprende una psicoterapia di coppia, per affrontarne i problemi specifici. Lo psicoterapeuta deve stare attento che i pazienti non utilizzino la psicoterapia individuale come manovra omeostatica. Egli può non solo permettere ma anche consigliare una psicoterapia individuale.

La psicoterapia consiste nell’incontrare qualsiasi sistema per renderlo più funzionale sia nelle relazioni intersistemiche sia in quelle intrasistemiche. Per esserci una psicoterapia c’è bisogno di un sistema/paziente che chieda aiuto. Le pazienti anoressiche sia con solo sintomo primario, sia con sintomo primario e sintomi secondari sono egosintoniche per cui non avendo coscienza della malattia, non possono diventare pazienti. Fortunatamente le anoressiche con solo sintomo primario, causando patologia intorno a sé, sono costrette a chiedere aiuto per gli altri; quelle con sintomo primario e sintomi secondari, creando ansia nel sistema famiglia, spingono questa a chiedere aiuto. Il paziente in oggetto diventa il sistema famiglia. La psicoterapia di famiglia ha lo scopo di far diventare le pazienti anoressiche, capaci di chiedere aiuto. La psicoterapia di famiglia quindi ha lo scopo di passare dal paziente/famiglia al paziente/individuo.

Le anoressiche con sintomo primario e sintomi secondari proseguono per una psicoterapia individuale sia per iniziativa personale, sia sotto stimolazione dello psicoterapeuta. Le anoressiche con solo sintomo primario, alcune si accontentano del cammino fatto e si rassicurano ancora di più se il paziente designato prosegua con la psicoterapia individuale; altre, innamorate di ciò hanno intuito lungo il lavoro della psicoterapia, chiedono di intraprendere una psicoterapia individuale, che permetta loro di trovare un significato ai nuovi interrogativi che si pongono. Hanno deciso anche loro di diventare delle pazienti.”

Si conclude così il capitolo scritto dal professor Ariano nel suo libro “Il corpo muto”. Un testo straordinario, a mio parere, che affronta in modo complesso e articolato, ma chiaro e funzionale le patologie trattate.

 

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